Oggi vi raccontiamo una storia di cambiamento, attivazione, rinascita. Protagonista è una straordinaria mamma che ha compiuto un importante passo per se stessa e il suo bambino, e ha scelto di farsi accompagnare lungo questo nuovo percorso dalle nostre operatrici.
Buona lettura!
La chiesa di Santa Maria Assunta dei Pignatelli affaccia sullo slargo dove si trova anche la statua del dio Nilo, in pieno centro storico. Siamo a Napoli, e a duecento metri da lì c’è la sede di Pianoterra. Un’operatrice dell’associazione ci passa quotidianamente e, da qualche giorno, ha notato una donna seduta sui gradini della chiesa che chiede l’elemosina con in braccio un bambino di qualche mese. Non sorride mai, fa appena un cenno per ringraziare chi le dà qualche spicciolo. Come l’operatrice, che a un certo punto cerca di attaccare discorso.
La invita ad andare all’associazione: ci sono diverse attività che potrebbero esserle utili, e magari potrebbero darle qualcosa per il figlio. Cerca anche di convincerla a non stare per strada con il bambino – la legge italiana non permette una cosa del genere e lei rischia di perderlo. Ma Josephine (i nomi sono di fantasia, ndr), una donna nigeriana sulla trentina, non sembra molto interessata. È solo dopo parecchie insistenze che, un giorno, si presenta alla sede di Pianoterra con il suo Daniel al collo. Dalla faccia sembra quasi che sia lì per fare un piacere all’operatrice – e, già che c’è, per prendere le cose che possono darle. Non è facile spiegarle che questo non è un ente caritatevole, che le operatrici non si limitano a darle un pacco da portare a casa ma vogliono conoscerla meglio per capire come offrirle un aiuto più a lungo termine. Ma Josephine vuole solo sapere se le danno qualcosa o no, dopodiché deve tornare a lavorare. Se ne va con un sacchetto pieno di cibo, ruvida e diffidente come era arrivata.
Il rapporto di Josephine con Pianoterra va avanti così per quasi un anno: richieste di cibo e vestitini per Daniel, e totale chiusura verso le operatrici. Di lei sanno solo che vive in un appartamento del centro storico con altre persone e immaginano che, come molte donne uscite dalla tratta, sia costretta a chiedere l’elemosina per saldare il “debito” con i trafficanti. Ogni volta le ricordano come funziona Pianoterra, le chiedono inutilmente di impegnarsi nel patto di reciprocità con l’associazione. Josephine è chiusa, diffidente, sembra interessata solo agli aiuti materiali che può ricevere, ma le operatrici non si fanno scoraggiare e utilizzano il sostegno materiale come strumento per tenerla agganciata all’associazione e non perderla di vista.
A un certo punto però si convince, e comincia a frequentare il laboratorio di cucito. Arriva, lascia Daniel nello spazio giochi e si piazza in un angolo a lavorare, senza dare confidenza alle altre.
Intanto, di fronte all’atteggiamento scostante di Josephine, alla sua espressione perennemente arrabbiata, le operatrici cominciano a usare l’arma dell’ironia: “Eccola qua,” esclamano quando arriva, “pure oggi nervosa… Che è successo?” Prese in giro benevole, battute con il sorriso sulle labbra, niente di più. Però funziona. Un giorno, all’ennesima battuta, Josephine ride. È qui che cambia tutto. Josephine ha finalmente accettato la relazione con le operatrici dell’associazione e inizia a lasciarsi andare. Come se, fino a quel momento, con il suo atteggiamento non avesse fatto altro che metterle alla prova per vedere fino a che punto potesse fidarsi. Non è stupida Josephine, tutt’altro.
In questi mesi, al laboratorio di cucito ha imparato molto e ha tirato fuori una creatività notevole. Ora comincia a socializzare con le altre e addirittura si adopera per cancellare il confine invisibile che spesso separa i due sottogruppi formatisi al laboratorio, quello delle donne nigeriane e quello delle donne marocchine. In breve tempo diventa la leader del gruppo. Nei mercatini che Pianoterra organizza per vendere i prodotti del laboratorio, è lei a gestire gli introiti e a distribuirli tra le partecipanti, è lei a spiegare ai clienti che cosa fa l’associazione e qual è il senso del laboratorio. Un senso che le è sempre più chiaro.
Sono passati quasi quattro anni da quei primi incontri davanti alla statua del dio Nilo. Josephine ha smesso di chiedere l’elemosina e ha cominciato a lavorare in diverse case come collaboratrice domestica, ma si tiene libera la mattina del giovedì per dedicarla al laboratorio di cucito. Ha capito benissimo che è un’opportunità, un investimento per il suo futuro. Sa che nei progetti dell’associazione c’è l’idea di trasformarlo in una microimpresa femminile, ed è un’idea in cui crede, un’idea per cui è disposta a darsi da fare.
Questa storia è contenuta nel volume “Dieci anni di Pianoterra. Un bilancio”, che potete scaricare e consultare a questo link.