Quest’anno abbiamo vissuto una delle esperienze più sconvolgenti e insolite a causa della pandemia da Covid-19: il lockdown, ossia “il divieto imposto alle persone di accedere a un territorio, a un’area, a un edificio e di uscire liberamente dalla propria abitazione, fatti salvi comprovati casi di necessità o di salute o specifici permessi concessi dai governi o dalle autorità territoriali o locali”.
E’ quasi stridente considerare che nel terzo millennio, epoca in cui il villaggio globale ha azzerato le distanze, accomunato le culture e accelerato le conoscenze e le sperimentazioni mediche e scientifiche, il mondo intero è caduto in ostaggio di questo “virus con la corona” che ancora non accenna a defilarsi dalla scena.
Se il virus imperversa ancora provocando patologie gravissime, decessi e panico generalizzato, la vita e le nascite, seppur blindate in ospedali inaccessibili al pubblico dei visitatori e dei parenti, continuano.
Il nostro lavoro come operatrici del progetto “Fiocchi in Ospedale”, progetto finanziato da Save the Children Italia e realizzato presso l’A.O.R.N. “A. Cardarelli” dall’Associazione Pianoterra onlus, e le nostre relazioni con le donne in gravidanza e le neo-mamme degenti in ospedale, nonché con le loro famiglie, si sono radicalmente modificati, dovendo rinunciare ad incontri “in presenza” a favore di video-colloqui, telefonate, messaggi e chat.
Nel mio lavoro di consulente alla pari per l’allattamento ho sentito doppiamente la difficoltà di supportare una neomamma nell’immediato post-parto. Per la mia specifica professionale e per mio temperamento sono solita infatti utilizzare nel mio lavoro molto corpo, molta vicinanza, tante parole, qualche coccola e poca “tecnica”. Quando osservo una donna che allatta al seno, non mi soffermo troppo a considerare se l’attacco al seno è corretto, se la testa, le spalle e le anche del neonato sono allineate, se c’è contatto “pancia contro pancia”, ma soprattutto se c’è connessione, empatia, voce e abbracci che trasmettano autentica presenza e supporto, fiducia nella madre di poter nutrire il suo bambino non solo di latte, ma anche di amore, di sguardi e di carezze. Come io stessa cerco di fare con la puerpera che ho davanti.
Il lockdown prima e le attuali norme di distanziamento sociale, l’uso della mascherina in presenza di estranei, la continua igiene delle mani creano un tale livello di “sanificazione” durante un incontro da finire per snaturarlo e snaturarmi.
Ma accanto a lockdown, abbiamo imparato a utilizzare un’altra importante parola: “resilienza”. E dunque io come le mie colleghe, ci siamo allineate e abbiamo anche capitolato di fronte alle nostre resistenze emotive, ci siamo arrese alle televisite e al telelavoro, alle consulenze via Skype e alle videochiamate su WhatsApp. Abbiamo risposto con questi strumenti ad ogni situazione, persino a un allattamento che non decolla, nella speranza di poter comunque continuare ad offrire una “presenza” alle nostre utenti.
La speranza è indubbiamente che si possa tornare alla normalità in tempi accettabili perché in un contesto così intimamente segnato dalla fisicità niente potrà mai supplire davvero alla presenza discreta di una consulente accanto a una mamma alle prese con l’allattamento al seno e con le sue sfide.
(Daniela Palmisano, consulente allattamento alla pari)