Sostenere una donna nel suo percorso di uscita da un contesto familiare o di relazione in cui subisce violenze e abusi è un lavoro molto difficile perché complesse e stratificate sono le forme che la violenza di genere può assumere, tessendo lacci e catene dolorose attorno all’esistenza di tante donne e, spesso, dei loro bambini.
La prima e più diffusa difficoltà per una donna che vive in una situazione abusante è prenderne in qualche modo coscienza e iniziare a parlarne. Questo anche perché uno degli effetti principali della violenza che le donne subiscono è l’isolamento, sia psicologico che fisico, l’allontanamento da reti parentali e amicali fino al confinamento nello spazio chiuso delle pareti domestiche. La solitudine e la sensazione di non avere via di uscita né alternative all’accettazione dello status quo sono ancora più gravi per le donne di origine straniera, che scontano l’estraneità in un paese che non è il loro, le difficoltà linguistiche, la scarsa conoscenza di leggi che potrebbero tutelarle.
Occuparsi di questo specifico target richiede ancor più una predisposizione al lavoro di rete integrato e il riferimento a una equipe multidisciplinare (psicologa, assistente sociale, consulente legale, mediatrice culturale, ecc.), oltre a una rete viva e competente di istituzioni e organizzazioni in grado di offrire a queste donne una via d’uscita sicura e un possibile nuovo inizio.
Proprio a partire da queste considerazioni abbiamo chiesto a tre mediatrici linguistico-culturali che collaborano con noi di raccontarci quali sono i problemi più frequenti riscontrati nel lavoro con donne vittime di violenza: Florence dell’ambulatorio Emergency di Castel Volturno per la comunità nigeriana di quel territorio, Lidia e Maria Francisca, entrambe mediatrici per la Cooperativa sociale Dedalus e rispettivamente operatrici di riferimento per la comunità srilankese e latino-americana di Napoli.
Siamo partite chiedendo loro se nei paesi di origine delle donne con cui lavorano sono presenti delle leggi che definiscano le violenze di genere come un reato grave. L’aspetto positivo è che un quadro normativo esiste, proprio come in Italia. Ma, proprio come nel nostro Paese, questo sembra non essere sempre sufficiente.
A indebolire queste norme e farle spesso rimanere sulla carta sono, in primis, pesanti e radicati stereotipi di genere sul ruolo della donna nella società e all’interno della coppia. Maria Francisca, peruviana, parla di una cultura “machista” che costruisce la mascolinità anche sul diritto a sopraffare fisicamente le donne, mentre Florence, nigeriana, parla dell’idea diffusa che donne e bambini possano e debbano essere “corretti”, anche ricorrendo alle percosse. Questi condizionamenti sono spesso accettati dalle stesse donne, che tendono a colpevolizzarsi per i comportamenti violenti degli uomini con cui vivono o a farsi sopraffare dalla vergogna per non essere riuscite a far funzionare la relazione. Lidia, dallo Sri Lanka, punta invece il dito contro un altro enorme ostacolo: la dipendenza economica delle donne dagli uomini di cui sono vittime, che impedisce loro di immaginare una via di fuga, soprattutto in presenza di figli. Spesso persino tornare alla famiglia di origine per trovare un possibile rifugio è impossibile: Florence ad esempio ci parla dell’idea che, avendo “corrisposto” una dote alla sua famiglia, la donna diventa di fatto una proprietà del marito.
In contesti migratori tutti questi nodi spesso rimangono nascosti, non affiorano esplicitamente se non in casi eclatanti. Per questo è importante costruire una relazione di fiducia con le donne con cui lavoriamo, e mettere in campo un approccio che parta dall’ascolto, ma che si avvalga anche dall’osservazione. Proprio l’osservazione è in molti casi la chiave di volta per far emergere situazioni abusanti. Lo sperimentiamo ogni giorno nel nostro lavoro e ce lo confermano le mediatrici con cui collaboriamo. Preziosissimo è ad esempio il linguaggio del corpo di una donna vittima di violenza: è solitaria, trascurata, silenziosa. Altrettanto importante è lo sguardo che cade sulla relazione di una madre con il suo bambino, che spesso in casi di violenze subite è alterato, segnato da incapacità empatica, mancanza di comunicazione, estraneità.
Eppure spesso sono proprio i loro figli l’elemento che schioda le donne da situazioni abusanti e le induce a fare il primo passo “fuori casa” e prendere coscienza dei danni che possono provocare gli abusi e i maltrattamenti. Lidia ce lo dice con chiarezza: spesso le donne denunciano i loro partner proprio nel momento in cui le violenze che avevano tollerato su di sé iniziano a riversarsi sui figli.
Il lavoro delle mediatrici culturali in queste situazioni è ancor più delicato e prezioso: sono figure ponte tra due mondi, quello del paese di partenza e quello del paese di arrivo, ma anche tra un “dentro”, la prigione della violenza, e un “fuori”, una possibile via di fuga. Florence lo dice senza mezze misure: “ In alcune situazioni sembra meglio restare fra le braccia del diavolo, ma conosciuto, piuttosto che tra le braccia di un angelo sconosciuto”. È importante quindi, nell’accompagnare una donna ad attraversare quel ponte, fornirle gli strumenti grazie ai quali possa maturare da sola la scelta di autodeterminarsi: le leggi che possono tutelare lei e i suoi figli, le strutture che possono accoglierla, ma prima ancora, la consapevolezza che le violenze subite non sono una sua colpa, ma un reato. La denuncia viene dopo, o può non arrivare affatto, come ci ricorda la mediatrice nigeriana: spesso le donne che incontra vorrebbero solo “sparire”, andare in un altro mondo dove poter “vivere la loro vita”.
È proprio la “fuga” il meccanismo di difesa da scardinare con una continua offerta di ascolto e informazioni, oltre che tempo da destinare a queste donne e attenzioni da riservare ai loro bambini. Lavoro già di per sé molto complesso, se non fosse che il professionista deve avere ben in mente anche un altro tempo da destinare a questa diade, altrettanto importante, quello della tutela e della protezione. E a volte purtroppo i due tempi – quello dell’ascolto e della maturazione di una consapevolezza e quello della tutela, della donna ma soprattutto dei minori coinvolti – possono non coincidere.
Abbiamo qui riportato solo alcune delle osservazioni raccolte confrontandoci con mediatrici culturali che lavorano in contesti di migrazione. Dai loro racconti – oltre che dalla nostra esperienza quotidiana – emerge tuttavia con chiarezza come uscire da un contesto violento per una donna significhi dover superare ostacoli, difficoltà e rischi che sono ricorrenti e dipendono solo in parte dal background culturale o dalle condizioni socio-economiche in cui vive. A fare la differenza è spesso proprio la possibilità di spezzare l’isolamento e contare su una rete ampia e forte in grado di accoglierla in sicurezza e traghettarla in una nuova vita. Una rete che può contribuire, inoltre, a responsabilizzare istituzioni spesso zavorrate da stereotipi duri a morire e lungaggini burocratiche, e a rendere efficaci leggi e normative che rischiano altrimenti di restare mere dichiarazioni di principi.