Precarietà, disparità di trattamento e opportunità, gap salariale: il mondo del lavoro in Italia è ancora fortemente ostile alle donne, sebbene queste ultime siano in media più istruite e abbiano competenze migliori dei loro colleghi. Un’ostilità che esplode in tutta la sua ingiustizia quando le donne scelgono di diventare madri, scelta che spesso coincide, drammaticamente, con l’espulsione immediata o negli anni a venire dal mercato del lavoro. E questo accade in tutti gli ambiti lavorativi, da quelli meno qualificati e più precari a quelli meglio retribuiti e prestigiosi. Essere donne ed essere madri può significare portarsi dietro una zavorra agli occhi di capi, colleghi e collaboratori, doversene scusare in continuazione e dover sistematicamente rinunciare a qualcosa.
La pandemia, come tutte le crisi sistemiche, ha portato impietosamente alla luce questa situazione e oggi, a un anno dalle prime chiusure delle scuole, sappiamo che il panico che serpeggiava tra le madri sin dalle prime avvisaglie di lockdown lo scorso anno, era più che giustificato. Nello sconvolgimento che è seguito, le donne hanno perso il loro posto di lavoro o hanno subito un deterioramento delle condizioni lavorative in misura molto maggiore rispetto agli uomini: un “salto indietro”, lo hanno definito da più parti. Ma è stato davvero un salto indietro, o i passi in avanti erano stati spesso un’illusione?
Ne abbiamo parlato con un gruppo di mamme che frequentano le attività proposte nell’hub NEST di Napoli, in un ciclo di incontri dedicati al tema della conciliazione famiglia-lavoro e della parità di genere. Quelle che seguono sono le loro testimonianze.
Sono entrata nel mondo del lavoro dopo aver finito gli studi, quando l’idea di una famiglia era ancora molto lontana. Mi sentivo fortunata, libera e indipendente. Quando poi sono diventata mamma di due bambini, mi sono ritrovata a fare i conti con la realtà, una realtà fatta di ritmi frenetici, incastri come pezzi di un puzzle, tripli salti mortali… Ho imparato che essere donna vuol dire essere mamma, moglie, lavoratrice e casalinga, tutto in un’unica persona. Eppure ero fortunata, avevo un lavoro e una famiglia! Oggi, in piena pandemia, mi ritrovo di nuovo a pensare di essere fortunata perché posso lavorare in smart working. I miei mille ruoli però si sono sovrapposti e confusi, casa, lavoro, bambini e DAD tutto insieme… una situazione folle si può pensare, eppure è la realtà che vivono la maggior parte delle donne oggi! (Annamaria, mamma di Gabriella e Marco)
Annamaria si definisce “fortunata”, perché a lei viene concesso di essere la famosa “mamma multitasking”, tanto osannata dalla comunicazione ufficiale e da una miriade di blog al punto che l’essere multitasking sembra ormai una qualità connaturata alla natura femminile.
Claudia e Maria non hanno avuto questa fortuna.
Ho iniziato a lavorare nel 2005, quando non ero ancora mamma. Dopo la nascita del mio primo figlio ho continuato a lavorare part time e, con l’aiuto di mia madre, riuscivo a gestire lavoro e maternità. Nasce la mia seconda bambina e dopo un anno il negozio in cui lavoravo chiude. Nello stesso periodo al mio primo figlio viene diagnosticato un deficit cognitivo, perciò mi sono dovuta dedicare interamente a lui che aveva bisogno di visite specialistiche. Mi è dispiaciuto molto rinunciare al lavoro, perché lavorare mi piaceva, e un po’ mi faceva staccare la spina. A giugno 2019 poi mi viene fatta una nuova proposta, ma con meno ore, un part time che mi avrebbe costretta a cercare una babysitter qualificata che stesse con i bambini. Per questo ho preferito rinunciare perché quel poco che avrei guadagnato avrei dovuto darlo alla babysitter. E con questo ho detto addio al mondo del lavoro. (Claudia, mamma di Antonio, Francesca ed Enzo).
Era una bella giornata di sole. Ricordo bene il giorno in cui sono andata a dare le dimissioni. Lasciavo un lavoro che avevo amato, un’azienda di cui mi ero sentita parte, ma non riuscivo più a viaggiare, concentrarmi e vivere come se nulla fosse cambiato. Ho lasciato il lavoro anche con la tranquillità di chi in casa ha un secondo reddito e al suo fianco un compagno e degli amici che ti convincono che no: non sei tu ad aver fallito, poi una soluzione esce, si trova… Ma dentro di me si alimentava un senso di smarrimento, di paura, di confusione e di inadeguatezza. Tu eri là, guardavi i tuoi progetti, le tue passioni, la tua seconda casa sgretolarsi e non potevi piangere perché eri appena diventata madre e, agli occhi del mondo, una madre deve solo pensare ad accudire, essere presente ed essere felice. Io, che non ricordo mai niente, ricordo benissimo il foglio su cui ho sottoscritto che sì, le dimissioni erano volontarie e che no, nessuno mi stava obbligando. Sì: avevo una bambina di quasi un anno, e stavo “liberamente” scegliendo di diventare una disoccupata. (Maria, mamma di Sarah).
Nel migliore dei casi, la maternità è un evento che sconvolge la vita e le progettualità delle donne, senza scalfire minimamente quelle degli uomini. E’ sulle spalle delle mamme che ricade per intero il carico di dover ripensare gli spazi e i tempi familiari per fare posto alle esigenze dei bambini, e quasi sempre a farne le spese sono i loro spazio e i loro tempi. Molte non si arrendono e provano a reinventarsi.
Il lavoro nella mia vita ha sempre avuto un ruolo importante. Ho iniziato a lavorare a 18 anni, dedicandovi tante ore della mia giornata e facendo esperienze in tanti posti diversi. Da quando sono diventata mamma però ho cambiato prospettiva, ho visto la vita con occhi nuovi e ho modificato le mie priorità. Dopo la maternità ho chiesto di ridurre il mio orario di lavoro e di portare con me mia figlia, dato che lavoravo in un asilo nido e scuola d’infanzia privata. Questo mi ha portato sollievo ma non è stato facile. L’ambiente di lavoro non era pronto ad accogliere questa novità ed erano poche le colleghe che sembravano apprezzavare il valore aggiunto di poter portare il proprio figlio a lavoro, nonostante quello fosse un luogo dedicato alla cura per l’infanzia. Mi avevano inoltre ridotto lo stipendio, perciò alla fine ho deciso di sganciarmi da questo senso del dovere e riscrivere la mia vita lavorativa puntando a una condizione di maggiore dignità e valore. (Vittoria, mamma di Gaia).
Ho sempre lavorato, sin dai tempi dell’università, facendo anche diversi lavori contemporaneamente. La precarietà è stato il comune denominatore di tutte queste esperienze. Dopo la fine dell’ennesimo contratto non rinnovato, ho deciso di realizzare il mio desiderio di maternità. Tre anni e mezzo fa sono diventata mamma di Angela. Non potendo contare su una rete di sostegno (nonni, babysitter), mi sono dedicata totalmente alla mia bambina, mettendo da parte qualsiasi aspirazione lavorativa. Dopo quasi quattro anni, in piena pandemia, sto provando a riavviare un motore arrugginito, ricominciando a lavorare da casa con le lezioni private. Un piccolo passo per me stessa, che mi permette di ricominciare e vivere più serenamente il mio ruolo di mamma. (Antonella, mamma di Angela)
Multitasking, flessibili, equilibriste, eroine… se vogliono “avere tutto” (ossia una vita lavorativa autonoma e soddisfacente e una famiglia) alle donne viene richiesto di essere di più. Più forti, più veloci, più brave, più strutturate… una gara in cui chi si ferma è perduto e infatti, “fermandosi” per mettere al mondo dei figli, le donne spesso sono perdute, perdute nelle loro aspirazioni e nei loro spazi di autonomia. Il mondo va avanti. Vanno avanti i loro partner, che spesso guadagnano più di loro e quindi più difficilmente si ridurranno l’orario di lavoro per contribuire ad accudire i figli. Vanno avanti i loro colleghi di lavoro, a cui non viene chiesto di gestire malanni di stagione dei bambini, di inserirli al nido o di aiutarli nei compiti, e dunque potranno essere presenti con più continuità e guadagnarsi avanzamenti di carriera e promozioni.
Per concludere, per rispondere alla domanda che ci siamo fatte in partenza – abbiamo davvero fatto un balzo all’indietro con la pandemia? – l’impressione è che le conquiste ottenute con le lotte degli ultimi decenni sono importanti ma fragili e che adesso quello che serve davvero è guardare alla maternità e alla genitorialità in modo diverso: non più una zavorra per le aspirazioni delle donne, non più una condanna alla rinuncia del lavoro o a una vita di equilibrismi logoranti, ma un cambiamento che investe e responsabilizza entrambi i genitori e, con loro, tutta la comunità in cui sono inseriti, a partire dai luoghi di lavoro.