La migrazione non è soltanto un evento che coinvolge la sfera sociale o quella economica. È anche un viaggio psichico, emotivo, spesso potenzialmente traumatico, anche nei casi in cui non si presentano contesti segnati da difficoltà o violenze. Lasciarsi alle spalle il proprio paese di origine significa lasciarsi alle spalle anche un mondo di relazioni significative, quelle che danno sostanza e densità umana al vivere quotidiano, per ritrovarsi in un ambiente nuovo, estraneo, di cui non si possiedono le coordinate. Un ambiente che ha spesso scarsissima corrispondenza con le aspettative con le quali si era partiti, al quale ci si deve adattare in modo brusco e repentino.
Ecco perché, persino nei casi di ricongiungimento familiare, le emozioni che più spesso raccogliamo durante i primi incontri con le famiglie di origine straniera con cui lavoriamo sono isolamento, solitudine, smarrimento, disorientamento. D’altro canto, proprio la genitorialità è una delle sfere in cui emergono con maggiore evidenza le difficoltà di coesistenza tra riferimenti culturali differenti: mettere al mondo e allevare un bambino in un paese straniero è sempre una scelta coraggiosa e complessa, soprattutto in contesti segnati da marginalità e disagio. I bambini nati in queste famiglie sperimentano una grande vulnerabilità in alcuni passaggi cruciali: nel primo anno di vita, in occasione dei primi contatti con le istituzioni (sia quelle sanitarie che, in seguito, quelle educative), durante l’adolescenza.
Lavorare con queste famiglie, supportarle e rafforzarne competenze e risorse significa tenere sempre ben a mente lo strappo esistenziale determinato dall’esperienza migratoria e dal continuo processo di adattamento richiesto in ogni ambito da istituzioni spesso non attrezzate a confrontarsi con rappresentazioni culturali diverse. Ecco perché nell’approccio multidisciplinare che caratterizza la nostra metodologia di intervento è diventata sempre più cruciale la collaborazione con le mediatrici linguistico-culturali. Mediatrici, perché sono quasi esclusivamente donne le professioniste con cui collaboriamo, una scelta che ci consente di affrontare con maggiore serenità argomenti e problemi che appartengono alla sfera intima della vita familiare, che molte culture – compresa per molti versi la nostra – connotano come prevalentemente femminile.
Questa collaborazione avviene su più livelli. Alcuni servizi – ad esempio quelli del progetto “Luoghi per nascere a Castel Volturno”, un progetto finanziato con i fondi dell’Otto per mille della Chiesa Valdese – prevedono la presenza fissa di una mediatrice linguistico-culturale nell’équipe di lavoro; in altri casi la collaborazione è più occasionale e viene attivata rivolgendosi ad altri enti che mettono a disposizione questo servizio. La mediazione “a chiamata” è richiesta quando ad esempio già dai primi contatti sono evidenti le difficoltà di comunicazione in italiano, in inglese o in francese. Oppure quando emergono dei nodi difficili da sciogliere, che richiedono un approfondimento più articolato o una maggiore chiarezza nelle informazioni che veicoliamo. O ancora, nei casi di violenza, sia domestica – di genere o sui minori – che legata a contesti di sfruttamento e prostituzione. La mediazione linguistico-culturale è infine importantissima nel caso di intervento dei servizi sociali.
La presenza della mediatrice culturale può suscitare sentimenti contrastanti nelle famiglie con cui lavoriamo. Da un lato dà sollievo e conforto, e consente di affrontare subito le questioni che più stanno a cuore senza lo stress ulteriore della difficoltà di comprensione reciproca. Dall’altro può essere accolta con diffidenza. In questi casi, accogliere questa diffidenza, darle ascolto e valore, è il primo passo per costruire una relazione a tre in cui è importante il modo in cui la mediatrice si presenta e condivide frammenti del suo vissuto. È in questi casi che emerge la caratteristica fondamentale della mediazione linguistico-culturale: un ponte tra un luogo – ma anche una lingua e una cultura – di origine e un luogo di arrivo e al tempo stesso una guida all’attraversamento.
Affinché questo possa avvenire, è importante curare al meglio l’aspetto relazionale di un intervento che non è più a due – ossia tra l’operatrice e l’utente del servizio – ma a tre. E la presenza della mediatrice non è affatto neutra. Va accomodata, contestualizzata, preparata con cura, pena la perdita di sfumature e stratificazioni di significati che possono essere preziosissime per strutturare al meglio il supporto a quella donna o a quella famiglia in particolare. Una perdita che si andrebbe ad aggiungere a quella – inevitabile – dovuta al contesto di traduzione in cui avvengono i colloqui.
“Preparare” questa collaborazione significa anche tenere conto di un altro aspetto importantissimo, che differenzia in modo radicale la mediazione linguistico-culturale dall’interpretariato: la mediatrice condivide spesso con le persone che supporta durante i colloqui un vissuto che, come abbiamo già detto in apertura, è spesso traumatico. La professionista rappresenta inoltre la prima barriera su cui si riversano senza filtri emozioni forti delle utenti quali la tristezza, la solitudine, la paura, la vergogna. Alla mediatrice non si richiede solo la traduzione di parole e frasi, ma anche una collaborazione nel contenimento di queste emozioni, necessario a incanalare la comunicazione in un percorso di accompagnamento. Ecco perché fondamentale è per noi prenderci cura non solo della relazione con le donne e le famiglie che supportiamo, ma anche di quella con le mediatrici che ci affiancano in questo lavoro.
Riservare a seguito dell’intervento tempo e spazio di ascolto alle mediatrici ha consentito, nel corso degli anni, la costruzione di percorsi professionali e umani straordinari, fatti di continui confronti e arricchimenti, con l’obiettivo comune di essere al fianco delle famiglie con cui lavoriamo e offrire loro un supporto che tenga sempre conto della complessità delle loro storie e delle loro origini.