Un bimbo di due anni o poco più che ha sempre la stessa espressione sul volto. Neutra, senza sorrisi, senza bronci, senza lampi di interesse che attraversano gli occhi. “Me lo fai un bel sorriso?”, chiede l’educatrice, senza ottenere risposta. Nemmeno una montagna di mattoncini colorati a sua disposizione lo smuovono. Una mamma oppressa da mille preoccupazioni – i soldi che non ci sono, un compagno disoccupato, l’ingiunzione di sfratto, il permesso di soggiorno da rinnovare – che ogni volta che guarda il suo piccolo mette una maschera pensando di proteggerlo dalla sua tristezza, dalla sua paura.
Due frammenti di una storia come ne osserviamo tante nel nostro lavoro quotidiano con famiglie vulnerabili, in cui le emozioni – il loro emergere, nascondersi o travestirsi – diventano un importante segnale di allarme e, al tempo stesso, una fessura attraverso la quale provare a insinuare una leva di cambiamento.
È questo l’obiettivo dei laboratori psico-pedagogici sulle emozioni che inseriamo nei percorsi di rafforzamento della genitorialità del programma 1000 Giorni. Con incontri individuali e laboratori di gruppo, condotti in équipe da una psicologa e un’educatrice, proponiamo di “lavorare” su un’emozione in particolare – la rabbia, la tristezza, la paura, la gioia – e partiamo da attività esperienziali, un disegno, una lettura, un gioco da fare assieme, per provare a dare forma e parole a qualcosa che spesso resta schiacciato, nascosto, negato. Aprirsi in un contesto di ascolto, accogliente e non giudicante, da soli, in coppia o in gruppo con altri, è per questi genitori il primo passo verso il riconoscimento di ciò che si prova. E il primo riscontro che riceviamo è il sollievo di poterne parlare, il sollievo di sentire che finalmente lì, in quello spazio, è permesso dire (e pensare) “Mi sento arrabbiata, mi sento triste, e non mi piace”. Dare un nome alle emozioni, soffermarsi a pensarle, è il passo successivo: cosa sto provando in questo momento? Cosa ho provato in quell’occasione? Come mi sentivo? Dove è finita quell’emozione? Chi l’ha vista? A chi l’ho mostrata? L’ho nascosta? E perché? Con il lavoro psico-pedagogico condotto in questi incontri si dà spazio e legittimità a tutte le emozioni, spiegando a cosa ci servono, come funzionano, a cosa portano.
E piano piano, come sempre accade con l’approccio bi-generazionale su cui si fondano tutti i nostri interventi, lavorando con i genitori lavoriamo anche con i bambini: un genitore che sa riconoscere e nominare le sue emozioni, le sa articolare e gestire, saprà anche trasmettere questa competenza al figlio. Pensare alle emozioni e non limitarsi ad agirle e basta offre inoltre l’opportunità di non sentirsi schiacciati, in balìa, alla deriva, impotenti, tutte condizioni che possono sfociare in esplosioni di rabbia e comportamenti anche violenti. Ecco perciò che il lavoro di alfabetizzazione emotiva può diventare un importante strumento di prevenzione nel contrasto precoce alla violenza sui più piccoli.
Quest’anno abbiamo sperimentato questo approccio anche con un altro importante tassello della comunità educante che si attiva attorno alla crescita dei bambini che seguiamo: le maestre della scuola dell’infanzia. Nell’ambito del progetto Tornasole, attuato nel quartiere romano di Tor Bella Monaca, abbiamo lavorato con un gruppo di maestre dell’Istituto Comprensivo “Melissa Bassi”, proponendo loro un ciclo di laboratori incentrati sulle emozioni. L’approccio è sempre lo stesso: uno spazio di ascolto, l’invito a partire da esperienze pratiche – attività ludiche, disegni – per facilitare il dialogo e aprirsi a un vero confronto, la condivisione di esperienze in classe con bambini ritenuti “problematici”, il racconto delle emozioni provate e di quelle osservate. Assieme a queste maestre abbiamo poi portato in classe questi laboratori, proponendo ai piccoli letture e attività creative ed espressive. È questa una diversa declinazione della “bi-generazionalità” del nostro approccio: non solo genitori e figli coinvolti nello stesso percorso di crescita, ma anche insegnanti e bambini impegnati a costruire un terreno comune di comprensione e dialogo. Un percorso che si va a chiudere con la restituzione ai genitori, quando possibile anche questa in forma esperienziale, in cui adulti e bambini provano a sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda e a parlare delle loro emozioni con lo stesso vocabolario.