Abbiamo più volte parlato dell’importanza dei servizi educativi per la prima infanzia per una crescita sana e armoniosa del bambino. Ma quale può essere il loro ruolo nella prevenzione di situazioni che possono mettere a rischio la salute e il benessere dei bambini? Lo abbiamo chiesto a Chiara, assistente sociale coordinatrice per Pianoterra delle attività del progetto “Inviolabili”.
I servizi educativi per la primissima infanzia possono essere preziosi per cogliere sul nascere possibili segnali di relazioni familiari disfunzionali, maltrattamenti o abusi. Qual è l’esperienza nel progetto “Inviolabili”?
Le attività ludiche ed educative che proponiamo ai bambini nell’ambito del progetto Inviolabili hanno da un lato l’obiettivo di sviluppare le competenze di base dei bambini a seconda dell’età, dall’altro quello di aprire spazi di osservazione per cogliere segnali che possono indicare condizioni di trascuratezza, incuria o situazioni di maltrattamenti e abusi. Quando nel contesto di queste attività educative o di gioco l’équipe di lavoro coglie segnali che potrebbero collocare il nucleo familiare in un’area grigia, con possibili disfunzioni nella genitorialità e nella relazione genitore-bambino, si attiva una presa in carico più strutturata, con il coinvolgimento di altri partner della rete. Le attività educative diventano quindi un punto di partenza per costruire, assieme al nucleo familiare, un percorso che ha l’obiettivo di costruire una genitorialità positiva e responsiva, evitando che difficoltà magari legate a un periodo particolare che il nucleo familiare sta vivendo o a fragilità specifiche del singolo genitore possano cronicizzarsi. Il rischio è arrivare a un punto in cui gli interventi di prevenzione non bastano più, ma si richiedono azioni più radicali che potrebbero sfociare in percorsi obbligatori come la valutazione delle competenze genitoriali, percorsi di supporto strutturati dagli enti preposti, coinvolgimento del tribunale per i minorenni e un’eventuale affido familiare attraverso l’allontanamento.
Inviolabili privilegia in primo luogo il punto di vista del bambino che, nella fascia di età 0-6 anni, non ha gli strumenti per verbalizzare il suo disagio e utilizza molto il corpo, la relazione con i pari e con gli adulti. Ecco perché tutte quelle situazioni che presentano dei possibili campanelli di allarme ci consentono di attivare un’osservazione più approfondita del bambino.
Quanto di tutto questo avviene nei servizi per la prima infanzia pubblici o convenzionati?
Il progetto Inviolabili è molto ambizioso perché ha tra i suoi obiettivi quello di creare buone prassi con attori che lavorano con bambini tra 0 e 6 anni e che hanno modo di intercettare situazioni difficili o potenzialmente a rischio. Attraverso le attività di formazione estese a referenti di servizi presenti sul territorio, soprattutto educatori ed educatrici per la prima infanzia, l’obiettivo è proprio quello di dare strumenti per poter rilevare situazioni complesse. Nei vari territori di intervento abbiamo avuto però una risposta disomogenea, dovuta anche alla discontinuità dei servizi e alla carenza di personale attivo determinate dall’emergenza pandemica.
Più in generale la nostra impressione è che in questo ambito più che di buone prassi diffuse, si debba parlare di casi specifici ed eccezionali. Questo per diversi fattori, non ultimo quello di una carenza di formazione adeguata: le tematiche legate all’ambito della violenza e del maltrattamento sono infatti assenti dai percorsi formativi di educatori ed educatrici. Un’altra criticità è data dalla strutturazione dell’orario lavorativo di educatori ed educatrici nei servizi pubblici, che si esaurisce di fatto nelle attività dirette con il bambino e non prevede uno spazio da dedicare alla cura della relazione con la famiglia. Nei casi in cui questa relazione si crea, ciò avviene in modo estemporaneo, magari sull’uscio della porta, in momenti che si possono ritagliare ma che non sono formali, con educatori ed educatrici che non è detto abbiano le competenze necessarie al sostegno genitoriale. La mancata segnalazione di casi problematici nella fascia di età della prima infanzia è però spesso legata proprio all’impossibilità, salvo rari casi, di creare una relazione con la famiglia. D’altro canto, durante le nostre attività di formazione emerge come molti insegnanti non abbiano chiaro il quadro normativo entro cui si collocano questo tipo di prese in carico. Si verifica perciò che, anche nei casi in cui i segnali preoccupanti vengono effettivamente colti e interpretati correttamente, la segnalazione non avveniente perché – molto semplicemente – non si sa a chi indirizzarla perché sia davvero efficace. In mancanza di uno spazio dedicato alla formalizzazione della relazione tra insegnati e famiglia – come nel caso dei colloqui scuola-famiglia alla scuola dell’obbligo – anche solo affrontare questo genere di argomenti con i genitori diventa difficile, se non impossibile e può sfociare nella chiusura della famiglia a qualsiasi forma di dialogo o addirittura nel ritiro del bambino dal servizio educativo.
In un mondo utopico, all’interno di tutti gli istituti scolastici dedicati alla fascia 0-6 anni bisognerebbe prevedere una figura che faccia da ponte tra i bisogni della scuola e i servizi presenti sul territorio, con competenze che ad oggi non sono necessariamente incluse nel background dell’educatore. Una figura che raccolga queste situazioni difficili, segua le famiglie e, attraverso un’analisi dei bisogni e la costruzione di una relazione di fiducia, intercetti le situazioni da portare eventualmente all’attenzione dei servizi sociali.
Perdere questa preziosissima finestra di tempo significa, per le istituzioni scolastiche, condannarsi a operare sempre sull’emergenza e mai sulla prevenzione, perché un bambino che a 2 anni dà segnali di difficoltà ma non viene preso in carico assieme alla sua famiglia, arriverà con ogni probabilità alla scuola dell’obbligo con difficoltà ancora maggiori. A quel punto gli si affiancherà il sostegno, che però potrebbe non essere sufficiente o essere tardivo, e non essere efficace nel colmare ritardi e lacune. A 15 anni quel bambino è fortemente a rischio di dispersione scolastica, con tutto ciò che questo comporta in termini di inserimento sociale o lavorativo. All’orizzonte c’è lo spettro, sempre più concreto, del circolo vizioso del disagio e della povertà, che ricomincia e che si ripete, da una generazione all’altra.
Sappiamo che nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza c’è un capitolo corposo destinato proprio ai servizi educativi nella fascia 0-6 anni. Sta cambiando qualcosa nel modo di pensare ai servizi educativi rivolti ai bambini tra 0 e 6 anni?
Sicuramente rispetto a prima c’è una maggiore attenzione al nucleo familiare. Soprattutto al nord registriamo delle buone prassi in questo senso, un’attenzione diversa alla genitorialità e al fatto che quando si parla di prevenzione si deve necessariamente coinvolgere anche il genitore, non si può parlare esclusivamente di attività educativa. I risultati che ne traiamo però non sono quelli che ci aspettiamo, almeno fin qui, in termini di presa in carico del nucleo familiare. Un’altra cosa che notiamo è un’apertura maggiore alla possibilità di inserimento del bambino al nido. Rispetto al 2018 la domanda è aumentata, probabilmente anche perché oggi molte più donne hanno necessità di lavorare e dunque hanno più bisogno del nido inteso come servizio di custodia. Purtroppo questa prevalenza della funzione di custodia su quella educativa nei servizi per la prima infanzia è confermata anche dalle procedure di iscrizione al nido, in base alle quali viene assegnato un punteggio più alto nei casi in cui entrambi i genitori lavorano. L’idea che passa è quindi che il nido è uno strumento di welfare familiare, ma non un servizio educativo rivolto in primo luogo al bambino.
Ancora molto molto bassa è tuttavia la disponibilità dei servizi educativi dedicati allo 0-6 di entrare in rete con enti del terzo settore che, come Pianoterra, svolgono attività che potrebbero essere complementari nell’ambito dell’intercettazione di casi difficili. Questo, di nuovo, chiama in causa il percorso formativo degli insegnanti, che spesso sono totalmente all’oscuro dei servizi per la famiglia presenti sul territorio e delle opportunità che il territorio offre nella gestione di nuclei familiari in difficoltà. Altro fattore di cui abbiamo già parlato è l’orario di lavoro, interamente strutturato sul bambino, come se il loro compito fosse esclusivamente legato alla funzione della custodia. Ciò che viene fatto in più dipende solo ed esclusivamente dalla disponibilità dell’insegnante a sacrificare parte del suo tempo libero per dedicarsi a costruire una relazione con il nucleo familiare o approfondire le risorse presenti sul territorio per queste famiglie.
Concludendo, in Italia abbiamo sicuramente degli esempi straordinari di intervento anche in ambito pubblico (pensiamo al famoso modello “Reggio Emilia”, ma non solo). Bisogna però investire sulla cultura della tutela e della cura della prima infanzia, mettendo al centro i servizi dedicati a questa fascia di età proprio perché educativi, e non solo spazi di custodia. In questo sicuramente il terzo settore può essere una risorsa preziosa proprio per il suo ruolo di ponte tra istituzioni, reti territoriali e nuclei familiari vulnerabili, ma da solo non può essere sufficiente.