L’inizio di questo 2023 è stato segnato da un tragico fatto di cronaca accaduto in un ospedale romano, dove un neonato è stato trovato morto, si presume soffocato dal corpo della madre che, esausta dopo ore di travaglio, si è addormentata mentre lo allattava. La notizia, dolorosissima, ha scatenato un acceso dibattito su temi importanti: si è molto parlato delle condizioni in cui versano i servizi sanitari dedicati alla salute materno-infantile in Italia, delle difficoltà di accesso alle strutture per i partner delle partorienti sia durante il parto che durante la degenza, dovute anche al sussistere di protocolli anti-covid diversi da struttura a struttura, di quanto sia difficile – verrebbe da dire strutturalmente difficile – ottenere trattamenti analgesici come l’epidurale e della tossicità di un immaginario contemporaneo legato alla maternità tutto sorrisi e tenerezza che occulta ogni accenno ad emozioni contrastanti o negative.
I social e i siti di notizie sono stati inondati da un fiume in piena di testimonianze di migliaia di donne che hanno sentito il bisogno di raccontare la loro esperienza del parto e dei giorni immediatamente successivi. Un coro potente di voci femminili si è alzato per dire “anche io”, “potevo essere io”, “poteva succedere a me”. Racconti che hanno attraversato i social, ma anche le conversazioni con amiche, con i partner, con genitori o figli. Donne, tantissime, che hanno sentito il bisogno di dire a chi era disposto ad ascoltarle “adesso ti racconto come è stato per me”.
A colpirci, di questo moltiplicarsi di racconti in prima persona, è stata soprattutto la trasversalità degli argomenti che emergevano. Nel nostro lavoro quotidiano siamo a contatto soprattutto con donne e mamme provenienti da contesti molto marginali, segnati da povertà e isolamento, mentre la maggior parte delle donne che hanno preso la parola e si sono raccontate, anche solo per il fatto stesso di aver avuto la possibilità di farlo, mostravano di avere strumenti socio-culturali ed emotivi sicuramente più strutturati. Eppure, i temi che emergevano e le difficoltà denunciate erano e sono molto simili a quelli con cui ci confrontiamo ogni giorno nel nostro lavoro di accompagnamento alla nascita e supporto genitoriale con nuclei familiari vulnerabili. Certo, la povertà, l’isolamento, la marginalità e le barriere linguistiche acuiscono le difficoltà di accesso ai sistemi di cura e rendono le donne ancora più vulnerabili nelle fasi importanti e delicate della gravidanza, del parto e del puerperio. Ma parole come solitudine, stanchezza, dolore, senso di inadeguatezza, mancanza di ascolto, paura, vergogna, imbarazzo, che rimbalzavano da un racconto all’altro, emergono regolarmente anche durante gli incontri di gruppo o individuali con donne, future mamme o neo-mamme, che partecipano ai nostri progetti.
Proprio a partire da queste considerazioni, abbiamo pensato di aprire su questo blog uno spazio di riflessione su questi temi, portando il nostro sguardo dal basso, come di consueto “dal piano terra”, e soprattutto condividendo le storie e le testimonianze delle donne che accogliamo ogni giorno nei nostri servizi, per farle confluire in quel fiume di consapevolezza e presa di parola collettiva su ciò che significa davvero diventare mamme in questo paese che da qualcuna è stato definito il #metoo delle mamme. Speriamo, così facendo, di dare un piccolo contributo a diffondere uno sguardo più realistico ed empatico sull’esperienza della maternità, affinché nessuna madre debba più sentirsi sola.
Partiremo nei prossimi giorni con un approfondimento sul tema delle varie dimensioni della vulnerabilità di una donna nel processo che la porta a diventare madre.