Quando si parla di violenza ostetrica, è bene fare subito una precisazione: sebbene la prima figura professionale che nell’immaginario comune viene collegata a questo specifico aspetto della violenza di genere sia – appunto – quella dell’ostetrica, in realtà la violenza ostetrica è una forma specifica di violenza di genere che può essere agita da diverse figure, sanitarie e non, nei confronti di una donna in relazione alla sfera riproduttiva. L’espressione fa dunque riferimento a forme di abuso esercitate non solo durante il travaglio e il parto – sebbene sia questo un momento delicato di particolare vulnerabilità per una donna – ma anche prima, a partire dalla fase preconcezionale (compresi i casi di interruzione volontaria di gravidanza), durante la gravidanza e, dopo il parto, nel periodo del puerperio. Le figure che possono essere coinvolte in situazioni di violenza ostetrica sono varie: medici, infermieri, operatori sanitari, ostetrici, anestesisti, psicologi, ecc. Nei paesi con la legislazione più avanzata in tema di violenza ostetrica – soprattutto in America Latina – si citano anche familiari e conviventi.
Secondo i dati diffusi dall’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica Italia (OVOItalia), il 21% delle donne italiane dichiara di aver subito episodi di violenza ostetrica durante il parto, 4 donne su 10 dichiarano di aver subito pratiche lesive della loro dignità o integrità psico-fisica, una madre su tre non si è sentita adeguatamente supportata subito dopo il parto.
Come ogni altra forma di violenza di genere che coinvolge una donna che è anche madre o che sta per diventarlo, anche la violenza ostetrica ha effetti sulla salute e il benessere della donna stessa e del bambino. Un bambino a cui viene negato il diritto di stare con la madre subito dopo la nascita, ad esempio, è un bambino abusato; ma lo è altrettanto un bambino alla cui madre che ha appena partorito viene imposta senza possibilità di scelta la pratica del rooming-in – ossia la permanenza immediata e continuativa del neonato in stanza con la mamma – senza un supporto, o la cui madre non viene accompagnata adeguatamente nell’avvio dell’allattamento al seno. Nella delicatissima fase perinatale, la violenza ostetrica può interferire dunque con la creazione del legame-mamma bambino, provocando danni alla salute psico-fisica di entrambi. Sempre secondo i dati diffusi da OVOItalia, il 6% delle donne che ha subito episodi di violenza ostetrica ha dichiarato che questo ha influito sulla sua scelta di non avere altri figli.
È un fenomeno complesso da definire, ma anche da far emergere nella coscienza e nella consapevolezza delle donne. Questo lo tocchiamo con mano nel nostro lavoro con donne che stanno per partorire o hanno già partorito, e che spesso lasciano emergere nelle domande che ci fanno vissuti di disagio e sofferenza legati alla gravidanza e al parto , la sensazione latente di aver subito qualcosa di spiacevole che ha “sporcato” un momento tanto idealizzato. Le donne che presentano un qualsiasi tipo di marginalità o di maggiore vulnerabilità – ad esempio donne migranti, adolescenti, donne non sposate o che vivono in condizioni socio-economiche sfavorevoli o con basso livello di scolarizzazione, donne affette da HIV – sono più esposte al rischio di subire violenza ostetrica. Il bassissimo livello di consapevolezza fa sì che tutto ciò che viene prescritto o imposto venga accettato in modo passivo, per soggezione rispetto alle figure sanitarie, o semplicemente perché “si è sempre fatto così”.
Questo perché, purtroppo, anche nel personale socio-sanitario il livello di consapevolezza su queste tematiche è spesso molto basso, con grandi differenze sia individuali che “generazionali” rispetto a pratiche ritenute per molto tempo di routine o a sensibilità riguardo l’importanza dell’autodeterminazione delle donne nella sfera riproduttiva che sicuramente sono cambiate molto negli ultimi anni. Lo ripetiamo, la violenza ostetrica è a tutti gli effetti da considerarsi una forma di violenza di genere, e in quanto tale negli ultimi anni ha indubbiamente guadagnato un’attenzione maggiore rispetto al passato. Notizie e dati più facilmente accessibili e la possibilità di dare voce – soprattutto grazie ai social – a testimonianze individuali di disagio o abuso hanno determinato un aumento della consapevolezza nelle donne, mentre la progressiva diffusione, anche nella medicina, di una prospettiva di genere, hanno portato a una revisione di pratiche e procedure ritenute per molto tempo normali o auspicabili (ad esempio il ricorso a strumenti come il forcipe o a manovre ostetriche invasive). Anche questo ha contribuito a far maturare nelle donne la sensazione che le cose stiano cambiando, ma siamo ancora lontanissimi da una situazione ideale, in cui la donna viene vista come soggetto attivo e portatore di diritti nella sfera riproduttiva.
Cosa mettere in campo quindi per contrastare questa specifica forma di violenza di genere? La risposta è articolata, e comprende diversi livelli: sicuramente è importante accrescere il grado di consapevolezza delle donne, rendere il più accessibili possibili tutte le informazioni di cui hanno bisogno per compiere delle scelte – appunto – consapevoli ed esercitare in pieno il loro diritto all’autodeterminazione. E’ poi fondamentale intervenire nella formazione del personale medico-sanitario e socio-sanitario chiamato a supportare una donna nella sfera riproduttiva, puntando al superamento di comportamenti e pratiche in cui moltissimo spazio viene lasciato a pregiudizi culturali sulla gravidanza e il parto, a discapito spesso anche della scienza, e quasi sempre della libertà di scelta delle donne.
In questo post vi raccontiamo un pezzo del nostro lavoro su questo tema, e in particolare dei nostri percorsi di accompagnamento alla nascita e alla genitorialità, uno degli strumenti a nostro avviso più efficaci per l’empowerment delle donne che si apprestano a diventare madri e per la tutela della salute e del benessere loro e dei loro figli.
Questo post fa parte della serie “Nessuna madre dovrebbe restare sola“.