Donne incinte

Accompagnamento alla nascita e alla genitorialità: uno strumento importante contro la violenza ostetrica.

24 Novembre 2023

Fare domande e aspettarsi di ricevere delle risposte. E trovare tutto questo normale, un diritto. Lo ripetiamo spesso alle donne che frequentano i nostri percorsi di accompagnamento alla nascita e alla genitorialità, previsti nell’ambito di diversi progetti e tassello fondamentale del programma 1000 Giorni.

E per ribadire il concetto, l’invito a fare delle domande in caso di dubbi di qualsiasi natura è un leitmotiv di questi incontri, qualunque sia il tema trattato. È grazie a questi inviti che, piano piano, spesso vincendo timori e imbarazzi, le donne trovano il coraggio di far emergere esperienze di disagio o dolore legate alla loro esperienza di gravidanza e parto che oggi, sempre più apertamente, possiamo ricondurre alla sfera della violenza ostetrica. E spesso questi racconti assumono la forma di una domanda: è normale?

È normale, come è capitato a Clarissa, ritrovarsi in pieno travaglio ad essere esaminata da tanti specializzandi, senza che le fosse stata spiegata la ragione della presenza di tutte quelle persone in camice che la osservavano, facendola sentire un oggetto? O, come è capitato ad Amina, non avere informazioni sulle medicine che le venivano iniettate via flebo durante il travaglio? O ancora, come è capitato a Giuseppina, subire una dolorosa manovra di spinta sulla pancia senza che le fosse spiegata la ragione? Ed è normale sentirsi apostrofare in modo aggressivo mentre si cerca di esprimere il proprio dolore, come è capitato a Joy, che ancora ricorda quel “non è niente, ce la fanno tutte” che ha bruciato come uno schiaffo dopo ore e ore di travaglio? Oppure sapere, come è capitato a Nastassja, di aver subito un’episiotomia solo a parto concluso, senza che nessuno le avesse chiesto il consenso o gliene avesse spiegato le ragioni?

Sono tutti esempi di situazioni quotidiane in sala parto, spesso percepite dal personale medico-sanitario come “normali”, per le quali il consenso delle donne è spesso ritenuto superfluo, se non controproducente, ma che normali non lo sono affatto per le donne, doloranti e spaventate in un momento di grande vulnerabilità.

A questo si aggiunga che, come purtroppo più in generale con la violenza di genere, anche nei casi di violenza ostetrica protestare o denunciare è ancora molto complesso: spesso non ci sono prove dell’accaduto, e inoltre intraprendere una causa implica alti costi e un certo coinvolgimento emotivo, per donne che spesso vorrebbero solo dimenticare l’accaduto.

Nei nostri percorsi di accompagnamento alla nascita, che prevedono la presenza fissa di un’ostetrica accanto a una psicologa e a un’assistente sociale, noi puntiamo a rendere le donne pienamente consapevoli dei loro diritti e forti abbastanza da riuscire a rivendicarli. Questi percorsi possono essere un’arma efficace contro la violenza ostetrica, poiché creano spazi di condivisione e informazione in cui alle donne viene presentato tutto ciò a cui potrebbero andare incontro, dalle cose positive e piacevoli a quelle che possono fare più paura.

In molti casi, infatti, i percorsi di accompagnamento alla nascita resi disponibili nei punti nascita non sono propriamente neutri, e puntano a trasmettere un’idea solo positiva del parto e della maternità, sorvolando sulle sfide e le difficoltà e creando nelle donne false aspettative, rendendole di fatto ancora più fragili e vulnerabili. Rispondere a una futura mamma che ha dubbi e incertezze con un generico “Non preoccuparti, andrà tutto bene, ce la fanno tutte e ce la farai anche tu” non è di nessun aiuto in caso di difficoltà. È molto più utile prendersi il tempo di esaminare tutte le possibile situazioni, presentando tutte le alternative, anche quelle in apparenza contrastanti (parto naturale VS taglio cesareo, allattamento al seno VS allattamento artificiale, ricorso o meno all’anestesia, ecc), mettendo costantemente al centro il rispetto della donna e del suo diritto a scegliere per se stessa e il suo bambino.

Naturalmente non bisogna confondere la consapevolezza con la competenza: è chiaro che il personale medico-sanitario ha una competenza scientifica specifica e preziosissima e che è compito di medici, infermieri e operatori sanitari fare di tutto per tutelare la salute e il benessere delle mamme e dei bambini, prendendo tutte le iniziative necessarie a tale scopo. Perché una futura mamma possa più serenamente affidarsi a questa competenza è però fondamentale prestarle ascolto, comunicare con lei in modo chiaro ed efficace e rispettare il suo diritto a esprimersi sul proprio corpo. E non rinunciare mai a questa comunicazione, anche nei casi in cui è ostacolata da barriere linguistico-culturali: non è un caso se i casi di violenza ostetrica che raccogliamo coinvolgono spesso donne di origine straniera, nei confronti delle quali la disponibilità a spiegare e comunicare è ancora più bassa, con l’idea che “tanto non capiscono”. Eppure i servizi di mediazione linguistico-culturale, per quanto insufficienti, esistono e servono proprio a questo: costruire ponti tra istituzioni e cittadini considerati portatori di diritti.

Solo così sarà possibile davvero sgomberare la sfera riproduttiva dalla dimensione della violenza, quanto meno quella istituzionalizzata e normalizzata nelle strutture medico-sanitarie a cui una donna si rivolge nelle varie fasi che portano alla nascita di un bambino. Una violenza che, come abbiamo già tante volte detto, rischia di avere ripercussioni negative sul benessere della madre e del bambino, non solo nel periodo perinatale, ma anche nelle settimane e nei mesi successivi. Come emerge dalla storia di Eliza, che ha voluto condividere con noi la sua testimonianza:

Ricordo il sorrisetto dell’infermiera quando sono stata dimessa, mentre mi informava che nei tre giorni trascorsi in ospedale dopo il parto il mio bambino era stato nutrito con il latte artificiale mentre era al nido. “Signora, è stato necessario”, mi ha detto. Io però avevo chiesto di non farlo, di portarmelo tutte le volte che lui aveva fame, perché volevo mettercela tutta per allattarlo. Loro mi rassicuravano, “Sì certo, te lo portiamo”, e poi scopro che gli avevano dato il biberon. Ero arrabbiata, arrabbiata, arrabbiata… Sono tornata a casa ho avuto difficoltà con l’allattamento, e ogni volta che lui piangeva invece di attaccarsi al seno io mi disperavo perché pensavo “non c’ero quando lui aveva bisogno di me, adesso preferisce il biberon, è tutta colpa mia”. Ero arrabbiata, è passato un mese e sono ancora arrabbiata. Con le infermiere, con me stessa, a volte con il bambino che piange. Non è giusto.

 

Questo post fa parte della serie “Nessuna madre dovrebbe restare sola