Parlare di prevenzione alla violenza di genere non è facile, ma è fondamentale per tutte le figure professionali e gli enti – pubblici e del privato sociale – che si occupano direttamente o indirettamente di questo problema. Ne abbiamo piena consapevolezza nel nostro lavoro quotidiano con donne e mamme provenienti da contesti complicati in cui disagio economico, isolamento, barriere linguistiche e incomprensioni culturali rappresentano tutti fattori di rischio per il verificarsi di maltrattamenti e abusi, sulle donne e sui bambini. Come individuare, in contesti così complessi, possibili segnali di allarme? Cosa si può fare “prima”? Prima che la violenza possa avere esiti gravi o letali, ma anche prima che una situazione di stress e difficoltà intrafamiliare diventi pericolosa per la salute e l’incolumità di una donna e dei suoi figli?
Ne abbiamo ragionato assieme a Chiara, assistente sociale e referente per Pianoterra del progetto nazionale di contrasto alla violenza sui minori “Inviolabili”.
La prima domanda, la più ovvia, riguarda i possibili segnali di una situazione di rischio potenziale. Ce ne sono? Come si colgono? Come si interviene?
Prevenire situazioni in cui può verificarsi la violenza di genere è molto complicato. I presidi territoriali chiamati a intervenire in quello spazio indefinito e in ombra che precede l’emersione del caso conclamato di violenza – ad esempio con un ricovero in pronto soccorso, una denuncia, una segnalazione dei servizi sociali per segni evidenti di percosse, ecc. – sono pochi e i loro mandati e perimetri di azione sono spesso limitati. E’ come se l’intera macchina a tutela e protezione di una donna vittima di violenza si potesse mettere in moto solo nel momento in cui viene formalizzata una denuncia. Cosa accade prima, lo sappiamo dolorosamente dai tanti casi di cronaca, resta immerso in una sorta di nebbia indistinta di episodi che spesso non destano troppo clamore o preoccupazione e che invece a posteriori diventano tutti premonitori, quando però è spesso troppo tardi. A fronte di queste difficoltà, è chiaro che realtà come Pianoterra o altre organizzazioni del terzo settore, presenti in modo più capillare e “laterale” nel tessuto socio-assistenziale delle nostre comunità, hanno rispetto a istituzioni pubbliche più formali – ospedali, questure o stazioni dei carabinieri, servizi sociali, scuole, ecc. – il grande vantaggio di poter osservare in modo più continuativo e in contesti anche meno formalizzati una donna che potrebbe essere a rischio di abusi e violenze.
Cogliere i segnali non è scontato, perché trattandosi – appunto – di segnali, la loro corretta contestualizzazione e interpretazione è cruciale per riuscire a definire un intervento che sia calibrato alla situazione e non rischi di ottenere invece l’effetto di una maggiore chiusura e allontanamento. Un’improvvisa trascuratezza nella cura del proprio aspetto, repentine variazioni di peso, intermittenza nella partecipazione alle attività proposte… questi e altri gli esempi di campanelli di allarme che potrebbero richiedere nelle operatrici un’attivazione particolare. Si tratta però – come si può facilmente intuire – di un campo minato: in condizioni generalizzate di vulnerabilità e disagio, come sono quelle in cui vivono le donne che seguiamo con i nostri interventi, ma non solo, questi segnali possono puntare anche in altre direzioni, essere legati a stress, preoccupazioni e difficoltà che non necessariamente implicano anche la presenza di maltrattamenti e violenze. È perciò importante che sia la donna a scegliere di aprirsi e parlare. Accompagnarla a quel punto, farsi trovare pronti nel momento in cui si apre una fessura, anche minima, nel muro di dolore, vergogna, paura che tiene prigioniera una donna vittima di violenza, è il compito delicatissimo e difficile di tutte le figure professionali chiamate, a vario titolo, a intervenire in questo genere di casi.
Come si traduce questo da un punto di vista operativo? Quali sono le strategie che possono essere messe in campo?
Sicuramente una cosa molto importante è parlarne. Parlarne in tutti i contesti possibili, parlare dei servizi che sono a disposizione di donne vittime di violenza, rendere disponibili materiali informativi con numeri e centri a cui rivolgersi. Ma anche far entrare questo tema anche in modo laterale e indiretto, rendere evidente che il fenomeno esiste, è diffuso, è capillare, ha tanti livelli. Discutere apertamente di possibili situazioni di allarme, prendersi il tempo di spiegare perché una situazione vissuta come “normale” – il mio partner mi manda tanti messaggi per chiedermi dove sono e quando torno a casa, mi chiede di consegnargli quello che guadagno, mi suggerisce continuamente cosa devo o non devo indossare, ecc. – potrebbe essere problematica. L’obiettivo è quello di privare l’esperienza della violenza di quell’aura di indicibilità in cui chi ne è vittima si sente solo questo, ossia una vittima, con tutto il portato di vergogna e isolamento che questo comporta.
Finora abbiamo parlato delle donne come soggetti di possibili interventi di contrasto alla violenza di genere. E gli uomini?
È vero, al centro del discorso pubblico sulla violenza di genere ci sono ancora sempre e solo le donne che la subiscono, mai gli uomini che la perpetrano. Mettere al centro di politiche di prevenzione della violenza di genere gli uomini sarebbe però fondamentale, ma è ancora qualcosa di rarissimo a livello istituzionale. Ad esempio, non esistono – o, se esistono, sono pochissimi – percorsi e interventi rivolti agli uomini abusanti. E ancora si fa molto poco anche nel campo dell’educazione. Eppure promuovere modelli diversi di relazioni tra i generi, improntate alla cooperazione e al confronto, mostrare modalità alternative di costruirsi la propria identità di genere che prescindano dalla logica della gerarchia e della sopraffazione, e farlo prima possibile, intervenendo nelle scuole e nei servizi educativi, sarebbe importantissimo. Perché, non lo si dice mai abbastanza spesso, la violenza di genere non miete vittime solo tra le donne. A esserne vittime sono anche, in primo luogo, i bambini che vivono immersi ed esposti, direttamente o indirettamente, a violenze e abusi. Ma sono anche gli uomini che, al di là del ruolo di carnefici in cui sono imprigionati, sono vittime a loro volta di un modello di mascolinità che oggi è definita “tossica”, la cui gamma emotiva è limitata all’antagonismo, alla sopraffazione, al possesso e al controllo.
Anche in questo caso, come si traduce operativamente questa esigenza di prevenzione a più ampio spettro?
Nonostante proviamo spesso ad allargare la partecipazione ai nostri incontri e servizi anche ai papà, i risultati non sono quelli che vorremmo, anche per limitazioni oggettive legate, ad esempio, al fatto che nelle famiglie che seguiamo gli uomini sono gli unici a lavorare e dunque hanno a disposizione meno tempo. Nei casi in cui però riusciamo ad avere la partecipazione di qualche papà, la loro presenza si rivela spesso preziosa anche per arricchire le discussioni di elementi in più: parlare di violenza di genere in presenza di uomini è sempre complesso, ma quando ci si riesce a guadagnarne in termini di consapevolezza e di strumenti di prevenzione sono tutti, sia gli uomini che le donne.
Molto di più è possibile fare nel campo dell’educazione: tutti i nostri servizi di contrasto alla povertà educativa – sia quelli che realizziamo nelle nostre sedi, rivolti ai bambini delle famiglie prese in carico, che quelli che realizziamo nelle scuole e nei servizi educativi del territorio – prevedono attività di educazione alle emozioni e di promozione di modelli collaborativi di relazione tra pari. Attraverso laboratori, letture e giochi i bambini possono imparare a guardarsi dentro, a riconoscere le proprie emozioni, a riuscire a dare un nome ed esprimere ciò che sentono, a valorizzare la cooperazione, il confronto, l’empatia. Ma anche a confrontarsi con ruoli al di fuori dagli stereotipi che ingabbiano sin dalla nascita maschi e femmine in percorsi separati. Sono strumenti fondamentali per la loro crescita sana ed equilibrata, semi che potranno germogliare in futuro.