Non ci stanchiamo mai di ripeterlo: nessuno dei nostri interventi potrebbe esistere senza la collaborazione quotidiana con i diversi soggetti che, nei vari territori in cui lavoriamo, si attivano per dare vita a una rete di supporto attorno a chi è più fragile e in difficoltà. A Castel Volturno, in particolare, abbiamo costruito già da diversi anni un rapporto per noi prezioso con l’ambulatorio di Emergency, che dal 2015 offre servizi di medicina di base e specialistica, educazione sanitaria e orientamento socio-sanitario alle fasce più deboli della popolazione, con particolare attenzione alla numerosa popolazione di origine straniera che vive sul territorio.
Di lavoro di rete, con uno sguardo particolare all’accesso ai servizi per donne in gravidanza e bambini anche per le fasce più vulnerabili, abbiamo discusso con il coordinatore dell’ambulatorio Sergio Serraino e con la mediatrice linguistico-culturale Florence Omorogieva.
“In Italia”, ha esordito Serraino “esiste un sistema sanitario universale e inclusivo, almeno sulla carta. Ciò vuol dire che tutti, anche le persone prive di permesso di soggiorno hanno accesso alle cure essenziali. Nei fatti però la situazione cambia da regione a regione, e spesso da ASL ad ASL. In Campania, in particolare, la situazione non è tra le peggiori. Esistono ad esempio gli ambulatori per Stranieri Temporaneamente Presenti – che invece mancano in altre regioni – a cui possono rivolgersi le persone straniere senza permesso di soggiorno. A Castel Volturno, in particolare, grazie anche all’attivazione di tante realtà del terzo settore, l’accesso alle cure è effettivamente garantito a tutti. Questo vale anche per le cure materno-infantili: le donne in gravidanza, con o senza permesso di soggiorno, possono fare gli esami previsti dal Servizio Sanitario Nazionale in tutte le strutture pubbliche e in alcune private. Da qualche mese inoltre, grazie a un’importante iniziativa della Regione, anche i bambini i cui genitori non hanno permesso di soggiorno possono avere assegnato un pediatra di libera scelta che li segua sin dalle prime settimane di vita. Sull’effettiva accessibilità di questi servizi e sugli standard di qualità si apre chiaramente un altro discorso, che però riguarda tutti i cittadini che risiedono sul territorio, e non solo le persone di origine straniera…”
E proprio quello dell’effettiva accessibilità ai servizi per tutti è uno degli ambiti in cui più rilevante è la collaborazione tra istituzioni ed enti del terzo settore. Lo vediamo tutti i giorni, quando ad esempio si rendono necessari interventi di accompagnamento ai servizi che pure ci sono, ma che faticano a intercettare un’utenza fragile, che rischia di restare invisibile o di non avere la forza di superare ostacoli di vario tipo: spostamenti difficoltosi se non impossibili senza un mezzo proprio, barriere linguistiche e culturali che possono impedire la comprensione di informazioni e indicazioni, condizioni di lavoro talmente precarie da essere incompatibili con la possibilità di usufruire dei servizi socio-sanitari disponibili. In questo è fondamentale l’apporto di figure come quella di Florence Omorogieva, mediatrice linguistico-culturale con cui collaboriamo spesso nel seguire assieme donne in gravidanza e neo-mamme con bambini di origine nigeriana.
“Queste donne sono spesso sole a dover affrontare difficoltà enormi”, ci ha ricordato Omorogieva. “Qui provano a ricreare una comunità, ma non c’è quella dimensione di rete familiare allargata grazie alla quale i bambini, ad esempio, sono accuditi non solo dalla loro mamma ma da nonne, zie, amiche… Una cosa difficile è costruire un rapporto di fiducia: tu puoi passare ore e ore a parlare di alimentazione, o di come è meglio che un bambino dorma, poi basta una telefonata con la nonna o la zia lontane e tutto viene rimesso in discussione! Difficile è anche mediare con i medici o i servizi sociali sul territorio, che spesso non prestano alcuna attenzione alle diffidenze dovute magari a differenze culturali, anche perché sono sovraccarichi di lavoro. Tutto questo fa sì che spesso anche se i servizi ci sono, non vengono utilizzati se non in emergenza”.
Quanto sia importante però che questo lavoro di rete tra istituzioni ed enti del terzo settore avvenga in un’ottica di collaborazione e non di sostituzione o esclusione lo abbiamo visto, a Castel Volturno in particolare, durante la pandemia e con la campagna vaccinale. In un momento di grande emergenza sanitaria, quando la priorità assoluta era quella di far vaccinare in massa la popolazione residente in Italia, l’apporto del terzo settore sui territori è stato ovunque fondamentale per permettere alla campagna di raggiungere anche le fasce di popolazione più isolate e marginalizzate. “In Campania”, ricorda Serraino, “grazie al confronto serrato tra autorità sanitarie regionali ed enti del terzo settore, si è arrivati allo straordinario risultato di avere la più alta percentuale di popolazione di origine straniera vaccinata in Italia, e questo soprattutto perché si è evitato di creare hub vaccinali “per stranieri”, che avrebbero inevitabilmente generato diffidenza e confusione, ma si è invece consentito a tutte le persone, con o senza documenti di soggiorno, di accedere allo stesso sistema di prenotazione per i vaccini”.
Il lavoro di rete tra servizi pubblici ed enti del terzo settore sul territorio è quindi fondamentale per far sì che una persona o una famiglia in difficoltà vengano prese in carico tenendo conto di tutte le dimensioni che il disagio può assumere. Ma questa presa in carico che definiamo spesso “integrata”, che prevede cioè il coinvolgimento di più soggetti (es. ASL, consultori, associazioni, CAF, scuole, ecc.) come viene vissuta dall’utente? Avere più interlocutori anziché uno prevalente, che magari si parlano anche tra di loro ma che comunque sono tanti, può essere disorientante?
“Più che il disorientamento”, osserva Serraino, “il rischio vero è che gli interventi che si mettono in campo, se non inseriti in un pensiero più globale e in una strategia più di lungo periodo, non abbiano alcun impatto effettivo né sulle singole persone né sulle comunità più in generale. C’è molta differenza tra un intervento che punta ad alleviare una difficoltà immediata – ad esempio la distribuzione di pacchi alimentari o altre forme di aiuto materiale – e uno che invece ha come obiettivo la costruzione di percorsi di autonomia così che quella persona o quella famiglia in futuro abbia la possibilità di orientarsi e accedere da sola ai servizi a cui ha diritto, uscendo dalla dimensione del puro assistenzialismo. Interventi di questo tipo richiedono necessariamente la collaborazione costante e quotidiana tra tutti i nodi della rete: per noi ad esempio è prezioso l’apporto di Pianoterra nel supporto alle donne in gravidanza e, più di recente, nella costruzione di canali di comunicazione tra i servizi educativi (nidi, scuole dell’infanzia e scuole primarie) e le famiglie”.
Il lavoro di rete con donne in gravidanza e famiglie con bambini piccoli per favorirne l’accesso ai servizi socio-sanitari ed educativi presenti sul territorio è uno dei pilastri del progetto PrecoceMente, attivo a Castel Volturno grazie al supporto dei fondi dell’8×1000 alla Chiesa Valdese e giunto al suo secondo anno di attività.