Il modello del welfare state, uno stato sociale che con i suoi servizi pubblici si prende cura e provvede ai suoi cittadini “dalla culla alla tomba”, sta attraversando ormai da diversi anni delle trasformazioni profonde. I tagli alle spese da un lato e l’evoluzione del concetto di servizi verso forme meno standardizzate e più personalizzate dall’altro hanno eroso progressivamente l’idea che lo stato sia l’unico ente deputato a erogare servizi considerati “di pubblica utilità”, lasciando spazio ad altri soggetti, appartenenti sia al privato sociale che al mondo del profit. Si è fatta strada un’idea alternativa di welfare, fondato sulla centralità della comunità come spazio in cui questi soggetti trovano posto mettendo in rete risorse di tutti i tipi – da quelle private a quelle pubbliche, da quelle umane e familiari a quelle organizzative e finanziarie – per promuovere un’etica della responsabilità e dar vita a una comunità in grado di prendersi cura di tutti i suoi componenti, compresi quelli più fragili.
All’immagine verticistica di servizi calati dall’alto si sostituisce quella di una rete in cui il pubblico continua – o dovrebbe continuare – a mantenere un ruolo essenziale nella definizione dei meccanismi di redistribuzione delle risorse e nella garanzia dei diritti di cittadinanza. Si tratta di due funzioni tanto più importanti nei casi in cui, a livello territoriale, si rilevano disparità e lacune nell’offerta di servizi, soprattutto per chi è più svantaggiato.
Pianoterra lavora quotidianamente a strettissimo contatto con il servizio pubblico, facendo da ponte tra le famiglie in difficoltà e i servizi presenti sul territorio tutte le volte che viene intercettato un bisogno specifico. Un lavoro questo non sempre semplice, ma che rende proprio il senso della comunità a cui tutti noi apparteniamo e che risponde a un principio che tuttora è alla base del nostro sistema di welfare, ossia quello dell’universalità.
In ciascuna delle sue sedi operative Pianoterra ha creato degli sportelli sociali, diversi e flessibili, per consentire alle persone seguite nei vari progetti di conoscere i servizi sociali, socio-sanitari, socio-educativi e scolastici presenti sul territorio e ricevere informazioni corrette e puntuali sulle modalità di accesso a ciascuno di essi. L’obiettivo è rapportarsi alle persone non più come attori passivi ma come cittadini, titolari di diritti e partecipi di una dimensione relazionale proattiva, cui viene riconosciuta la capacità non solo di fruire di informazioni, ma anche di gestirle in modo autonomo. È inoltre così possibile recuperare, almeno in parte, le disuguaglianze nell’accesso ai servizi pubblici.
Volendo calare tutto questo nella pratica, possiamo fare l’esempio di come una donna migrante, la chiameremo Sarah, può vivere la gravidanza e la nascita di un bambino, eventi che trasformano in modo radicale progetti di vita individuali. Forse Sarah vive da anni nel nostro paese, in una condizione di “invisibilità” sociale, spesso senza conoscere i servizi del territorio a cui pure avrebbe diritto di accedere. L’arrivo di un bambino spezza giocoforza questo isolamento: ora Sarah deve informarsi, deve interagire con persone e servizi che fino a questo momento aveva potuto tralasciare, si ritrova persino a vivere e muoversi in modo nuovo nella città, fruendo di strutture e servizi assieme ad altre persone con cui fino ad ora non aveva avuto contatti. In questa fase le barriere linguistiche diventano spesso difficili da aggirare e comprendere le norme e le procedure di assistenza adottate in Italia può essere complicato: l’informazione sanitaria è infatti pensata nella maggior parte dei casi esclusivamente per utenti italiane e la donna di origini straniere che non padroneggia bene la lingua italiana e che fino a quel momento aveva contatti solo con la sua comunità può sperimentare disorientamento nel muoversi tra una struttura e l’altra, nel comprendere le procedure o anche le parole degli operatori sanitari, nell’effettuare esami di cui non sempre ha chiari lo scopo e la necessità. Davanti a queste difficoltà e in assenza di un supporto Sarah potrebbe arrendersi, rinunciare a informarsi, a farsi seguire durante la gravidanza, a espletare le procedure burocratiche necessarie e prescritte dalla legge. In poche parole, potrebbe rinunciare a godere dei suoi diritti e ad adempiere ai suoi doveri di cittadina.
Il progetto “We C.A.N: percorsi di accompagnamento alla nascita e sostegno alla genitorialità per famiglie in condizione di vulnerabilità”, che Pianoterra ha sviluppato nell’ambito del suo programma 1000 Giorni con il supporto dell’8×1000 alla Tavola Valdese, è stato pensato proprio per donne come Sarah, con l’obiettivo fare da ponte tra le sue esigenze e i servizi pubblici a cui ha diritto. Il progetto promuove in particolare quattro azioni:
- informazione sulle risorse disponibili sul territorio e sulle modalità di accesso ai servizi esistenti, partendo dall’ascolto delle richieste e dei bisogni del cittadino
- promozione sociale nella rete territoriale delle attività e dei servizi offerti, per informare sul corretto utilizzo del sistema integrato dei servizi sociali e sociosanitari e incentivare forme di collaborazione, reti di partenariato e di empowerment territoriale
- accompagnamento ai servizi, con azioni di indirizzo attivo verso altre strutture erogatrici di servizi (telefonate, appuntamenti, accompagnamento fisico in uffici o strutture, ecc.)
- osservazione e raccolta dati sulla domanda e sul bisogno espresso dai cittadini, per rendere i servizi erogati rispondenti alle esigenze reali e commisurati alle risorse presenti nella comunità.
Un modello di intervento così organizzato incarna in pieno lo spirito del welfare comunitario, in cui pubblico e privato no-profit quotidianamente si incontrano, si confrontano e collaborano per promuovere e garantire condizioni di maggiore benessere alle famiglie che vivono in condizioni di vulnerabilità.